Il senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche
Attualità del trattato di Réginald Garrigou-Lagrange
di Giovanni Covino
Il trattato che presento, Le sens commun, la philosophie de l'être e les formules dogmatiques di Réginald Garrigou-Lagrange, in questi giorni ha visto la luce in una nuova versione italiana per i tipi della Leonardo da Vinci, curata da Antonio Livi e Mario Padovano [1]. Le sens commun venne pubblicato la prima volta nel 1909, e a questa prima edizione molta apprezzata per la polemica nei confronti del modernismo teologico, seguirono altre due edizioni in cui l'Autore, soprattutto nella terza (del 1921), approfondì ancor di più questioni di natura filosofica e i rapporti tra la filosofia e la teologia. Nella terza edizione - afferma l'Autore nella presentazione – «La controversia [sul modernismo] è stata messa in secondo piano […] ciò ha favorito l'approfondimento di quegli argomenti dell'opera che hanno un valore più positivo […]: il problema della natura e del valore del senso comune, che costituisce l'oggetto della prima parte. Lo studio sul senso comune e le prove tradizionali dell’esistenza di Dio […] è diventato la seconda parte dell'opera» infine «la terza parte: il senso comune e l'intelligenza delle formule della fede cristiana» [2]. L'importanza di questo denso scritto quindi sta nel fatto che esso per la prima volta tematizza la nozione moderna di "senso comune", mostrandone il rilievo epistemologico sia per la metafisica che per la teologia. In altri termini vengono collegati tra loro – come dice Livi nella Nota editoriale – tre elementi: il senso comune, la metafisica e il dogma cattolico. È dunque facilmente intuibile da queste prime battute tutta l'importanza e l'attualità di una simile trattazione sia nel campo filosofico che in quello teologico. Ma procediamo con ordine.
Molti filosofi, nel corso della storia del pensiero [3], si sono interessati espressamente della nozione di "senso comune", ma ciò che è ancor più degno di nota, è che per molti di essi tale nozione non rappresenta qualcosa di relativo, qualcosa che muta con il mutar dei tempi, bensì una nozione filosofica con un importante valore per la filosofia della conoscenza, in quanto essa si riferisce a delle evidenze originarie che vanno a costituire quel sapere immediato, necessariamente alla base di ogni altro sapere. Questa accezione, che è poi l'accezione epistemica di "senso comune", affiora, e ciò non a caso, a partire dalla modernità: appare, infatti, nel momento in cui avanza nella storia del pensiero quella impostazione filosofica che mette radicalmente in dubbio la certezza delle prime verità. Filosofi come Blaise Pascal (1623-1662), Claude Buffier (1661-1737), Giambattista Vico (1668-1744), Thomas Reid (1710-1796), Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), Antonio Rosmini (1797-1855), Jaime Balmes (1810-1848) sono tutti filosofi la cui importanza filosofica riposa su quella comune reazione (anche se in molti casi insufficiente, perché poco rigorosa sul piano teoretico) ad un determinato modus philosophandi: in altri termini la loro importanza sta tutta nel rifiuto di quel metodo che dal pensiero conduce all’essere. Soffermiamoci su alcuni di questi autori.
In un importante contributo su Giambattista Vico Umberto Galeazzi afferma che nell'opera del filosofo Napoletano vi è «un netto rifiuto dell'idolatria del metodo, cioè del primato del metodo sulle realtà da conoscere che scaturisce dalla pretesa disponente del soggetto. Egli ritiene che si debba "usare l'ordine, ma qual sopportano le cose"» [4]. In Vico vi è insomma la consapevolezza che l'impostazione razionalistica tende a piegare la realtà ai propri schemi, ad ingabbiarla in reticoli concettuali, alla ricerca di quel principio del filosofare libero da qualsiasi pregiudizio; un metodo questo che condusse Pascal ad opporre l'esprit de finesse (a cui appartengono - come lo stesso filosofo dichiara - i principi che sono davanti agli occhi di tutti) all'esprit de géométrie (che è l'intelletto raziocinante) [5]. Una decisa opposizione alla ricerca di un punto di partenza "puro", che è la negazione della verità dell'esperienza (il sapere immediato), la si trova anche in Jacobi, il quale - come spiega Cornelio Fabro - vede «nella opportuna rettifica e elevazione del Belief di Hume il punto solido per la fondazione del giudizio di realtà: la fede (Glaube) non è soltanto un principio teologico, ma anzitutto costituisce il fondamento della nostra convinzione di realtà e più precisamente della certezza di tutto ciò che non è suscettibile di rigorosa dimostrazione» [6]. Il concetto di Glaube jacobiano va radicalmente a contrapporsi ad una impostazione di stampo idealistico, non in termini di irrazionalismo, ma mostrando che il sapere riflesso (quello della scienza) presuppone un sapere immediato (l'esperienza) che è appunto ciò che il filosofo tedesco definisce fede, «certezza immediata della ragione naturale, senza implicazioni sentimentali o teologiche, cioè senza elementi irrazionali o soprarazionali» [7]. L'importanza di questo sapere immediato è stata acutamente rilevata da Pier Paolo Ottonello anche nell'opera di Antonio Rosmini: «Il ruolo rilevante del senso comune - leggiamo in un importante saggio -, dispiegabile alla condizione imprescindibile del rigore e della coerenza nel linguaggio, spicca nella lunga lettera, d'una ventina di pagina, del 5 dicembre 1831, al suo amato antico maestro degli anni più giovanili, nel quale riepiloga l'intendimento principale del Nuovo Saggio; nel quale – vi scrive – "voleva io mostrare (…) la poca fede, che io poneva in una filosofia che fosse nuova ed invenzione di un individuo; e come io non riconosceva altra dottrina vera, autorevole, e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell’ereditaria sapienza, di cui l'umanità è e fu sempre in possesso"» [8].
Dopo questa breve disamina sulla modernità giungiamo ai primi del Novecento e arriviamo proprio all'opera del tomista francese. Entrando subito nel merito della questione e riallacciando il discorso a quanto dicevo poc'anzi, Garrigou-Lagrange si propone ne Le sens commun proprio di determinare la «natura» e la «portata» del senso comune, vale a dire «determinare il valore delle nostre conoscenze primarie e fondamentali» [9]. Contrapponendosi in particolar modo all'irrazionalismo vitalistico della philosophie nouvelle (così veniva chiamata la filosofia di Bergson), in questa decisiva opera rileva in maniera più adeguata il valore epistemico del "senso comune": questo suo scritto, per meglio dire, è uno scritto di difesa e un attacco alla «notion utilitariste de la vérité». In un saggio dedicato proprio a Le sens commun, George Cottier afferma: «chez Bergson et chez son disciple E. Le Roy, le sens commun est la première expression de "l'illusion naturelle de l'intelligence". L'ouvrage du P. Garrigou-Lagrange peut donc être consideérée come une défense du sens commun et de sa portée de vérité» [10].
Nella sua delicata operazione, il filosofo e teologo domenicano procede con rara maestria, come evidenzia Padovano nel suo saggio introduttivo [11], stabilendo innanzitutto il valore della stessa intelligenza umana, in secondo luogo esaminando le varie teorie filosofiche (razionalismo innatista e ontologista, il criticismo kantiano, il pragmatismo e il nominalismo), per poi far seguire la dimostrazione che il senso comune si riconosce solo nella filosofia dell'essere. A questo punto viene però quello che è la parte più rilevante dal punto filosofico, vale a dire la giustificazione del senso comune e quindi il distacco da quel "vago istinto" di cui parlava la Scuola scozzese che pur facendo riferimento a tale nozione in polemica con lo scetticismo, si presenta, in realtà, come giustamente afferma il già citato Padovano, solo con «procedimenti dialettici velleitari» [12]. Questi autori, secondo quanto afferma Garrigou-Lagrange, fondano la certezze dei primi principi su una specie di istinto della natura razionale e che tutti gli uomini sperimentano e ciò dovrebbe costituire il senso comune. In verità questi non hanno ben presente la vera natura della conoscenza: essa – afferma il Nostro - «essendo conoscenza di qualcosa deve essere determinata da qualche cosa e raggiungerla, altrimenti non è conoscenza. Cosa potrebbe essere una conoscenza determinata da una spontaneità cieca della natura? La nostra intelligenza quando giudica e afferma la sua conformità con l'oggetto, vede questa conformità o non la vede. Se la vede, la sua certezza non si affida più all'istinto […] se non la vede il suo giudizio non è conoscenza. Ciò che in realtà motiva la nostra adesione è l'evidenza; non l'evidenza soggettiva come l'ha concepita Cartesio, ma l'evidenza oggettiva o l’essere evidente» [13]. Rinviando al saggio introduttivo di Mario Padovano per una disamina più accurata di questo punto fondamentale del trattato di Garrigou-Lagrange, ciò che mi preme sottolineare è che il filosofo e teologo francese su questo punto non presta il fianco, come la Scuola scozzese, allo scetticismo, ma giustifica il senso comune, appunto - come dicevo - elaborando una "filosofia del senso comune" che è poi la filosofia dell'essere, la quale formalizza (quindi è scientifica) i dati dell'esperienza originaria.
Dopo questa trattazione l'Autore si sofferma sulla giustificazione dei primi principi della ragione, per poi passare, nella seconda parte dell'opera a confutare le obiezioni contro le prove tradizionale dell'esistenza di Dio [14].
A questo punto inizia la terza ed ultima parte del trattato, dove Garrigou-Lagrange si sofferma sul valore delle formule dogmatiche, e si chiede quale sia la filosofia adeguata per l'interpretazione del dogma. Arriviamo così ad un punto delicatissimo del trattato: «noi – afferma il teologo – non abbiamo difficoltà ad ammettere che la fede può esprimersi in termini di senso comune (la formula di fede dei primi fedeli non conteneva alcun termine tecnico): se le nozioni di senso comune contengono confusamente una definizione reale vera, quid rei, possono tradurre analogicamente la realtà divina» e da ciò deriva una conseguenza importantissima per la questione dell'ermeneutica del dogma, e cioè che proprio per la ragione suddetta «ogni sistema filosofico che rompe con il senso comune, come il fenomenismo o la filosofia del divenire, ogni sistema che rifiuta una portata ontologica alle nozioni prime di essere, di sostanza, di cosa, ecc., non potrà servire a precisare la formula dogmatica primitiva, a formulare o a pensare filosoficamente il dogma» [15]. È quindi necessario – come dirà più tardi Giovanni Paolo II – «che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina» (Fides et ratio, n. 66).
Ma cosa vuol dire "conoscenza naturale vera e coerente delle cose create"? Le parole del papa suggeriscono al credente che la riflessione teologica non può accettare qualsivoglia sistema filosofico, ma - afferma anche Garrigou-Lagrange - solo quello che non contraddice la "conoscenza naturale" delle cose: Giovanni Paolo II mostra al teologo la via giusta da seguire, e pur non canonizzando una filosofia in particolare, sottolinea che «la teologia dogmatica speculativa presuppone e implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più radicalmente dell'essere, fondata sulla verità oggettiva» (Fides et ratio, n. 66 [corsivo mio]), filosofia che trova la sua più alta espressione nella tomistica il cui valore non verrà mai meno «perché bisognerebbe che venisse meno il valore delle cose» (Pio XI); in altri termini «se, per un motivo o per l'altro, la formula primitiva ha bisogno di essere precisata, non può esserlo se non facendo ricorso a quella filosofia dell'essere che è il prolungamento naturale dell'intelligenza spontanea» [16].
Come si può notare da questa breve presentazione, il trattato di Garrigou-Lagrange ha un interesse filosofico e teologico notevole. La sua trattazione del senso comune, l'accezione epistemica del termine sarà ripresa e sviluppata successivamente da altri due filosofi francesi d'ispirazione tomista, Jacques Maritain e Étienne Gilson: opere come Le Degrés du savoir (1932) o Le Réalisme méthodique (1935) sono esemplari in questa direzione, lavori che sarebbero del tutto inintelligibili senza il riferimento alla nozione di "senso comune". Nonostante la presenza di incertezze terminologiche e di imprecisioni concettuali, il lavoro di tutti questi autori e in particolare di Garrigou-Lagrange è stato ed è, senza alcun dubbio, una preziosa eredità che sarà ripresa soprattutto da Antonio Livi e dalla scuola del senso comune. Una ripresa che rischia di essere fraintesa se non si ha presente che
- il "senso comune" non è una facoltà dell'uomo, assimilabile alle categorie del trascendentalismo kantiano, ma è l'insieme delle certezze che ogni uomo in ogni tempo raggiunge, indipendentemente dal fatto che esse vengano in qualche modo formalizzate. La formalizzazione di simili certezze è la "filosofia del senso comune" che ha una decisiva importanza nel panorama filosofico contemporaneo proprio perché rileva la presenza di queste incontrovertibili verità, materia e forma di ogni ulteriore verità e della riflessione filosofica stessa, sicché nessuno le può negare se non a parole;
- queste certezze non sono sul piano dei principi, ma sono dei giudizi di esistenza, ossia «la conoscenza primaria del concreto» da cui deriva, «in una unità noetica indissolubile, la conoscenza primaria dell'universale, ossia l'intuizione dei primi principi, sia quelli di natura metafisico-logica che quelli di natura metafisico-etica» [17]. Livi individua cinque giudizi: l'evidenza dell'esserci e del continuo divenire di tante "cose"; l’evidenza dell'io come soggetto; l'evidenza dell'esistenza di enti analoghi all'io; evidenza dell'esistenza di leggi di tipo morale; evidenza dell'esistenza di un Fondamento trascendente;
- l'insieme di queste certezze è ciò che rende possibile (dal punto di vista gnoseologico) anche l'atto di fede: in altri termini il "senso comune" è l'insieme di verità naturali che sono il necessario presupposto delle verità rivelate cioè i praeambula fidei: tali verità non possono essere, infatti, esclusiva di pochi eletti (i filosofi), ma patrimonio di tutti anche in ragione dell'universalità del messaggio di salvezza.
Ho voluto porre l'accento, al termine di questa recensione, su questi tre punti perché sono necessari per comprendere questa nozione e la sua importanza nell'odierno panorama filosofico dove ci si affanna troppo spesso nell'identificare il carattere "problematico" della filosofia, la sua legittima autonomia con il filosofare senza alcun presupposto: questa nobile attività dell'uomo ha un limite e questo limite è proprio il "senso comune". La consapevolezza che il pensiero non può creare il proprio oggetto, esso è "dato" e da questo "dato" essa non può non partire e costantemente ritornare. Non si può comprendere la grandezza della ragione umana se non attraverso i suoi limiti.
Note:
[1] R. Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche, Nuova edizione italiana a cura di Antonio Livi e Mario Padovano, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[2] Ivi, p. 25.
[3] Cfr. A. Livi, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, Massimo, Milano 1992; E. Agazzi (ed.), Valori e limiti del senso comune, Franco Angeli, Milano 2004; A. Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010; M. Mesolella (ed.), I filosofi moderni del senso comune, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010; G. Covino (ed.), La nozione di senso comune nella filosofia del Novecento, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[4] G. Galeazzi, "La filosofia del senso comune in Gianbattista Vico", in M. Mesolella (ed.), I filosofi moderni del senso comune, cit., pp. 45-46
[5] M. Veltri, "L’autocritica della modernità: Pascal e la difesa del pluralismo gnoseologico", in M. Mesolella (ed.), I filosofi moderni del senso comune, cit., pp. 15-33.
[6] C. Fabro, Introduzione all'ateismo moderno, 2 voll., Studium, Roma 1969, p. 338.
[7] A. Livi, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo. Vico, Reis, Jacobi, Moore, Editrice Massimo, Milano 1992, p. 100; di Antonio Livi si veda anche il saggio "La riforma del sistema kantiano proposta da Jacobi e le valutazione storico-critiche di Fabro", in A. Acerbi (ed.), Crisi e destino della filosofia. Studi su Cornelio Fabro, EDUSC, Roma 2012, pp. 231-248; per l'interpretazione del Glaube jacobiano non in termini di irrazionalismo si veda anche M. Ivaldo, Filosofia delle cose divine. Saggio su Jacobi, Morcelliana, Brescia 1996.
[8] P.P. Ottonello, "Il senso comune in Rosmini", in M. Mesolella, I filosofi moderni del senso comune, cit., p. 88 [c. n.]. Nel volume collettaneo, curato da Mesolella, cfr. anche i saggi sul pensiero di Buffier, Reid e Balmes.
[9] R. Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche, cit., p. 27.
[10] G. Cottier, "Réginald Garrigou-Lagrange et son essai sur Le sens commun, la philosophie de l'être et les formules dogmatiques", in G. Covino (ed.), La nozione di senso comune nella filosofia del Novecento, cit., p. 26.
[11] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Le sens commun…, cit., saggio introduttivo pp. 14-15.
[12] Ivi, p. 16.
[13] Ivi, p. 112.
[14] Cfr. ivi, pp. 133-206.
[15] Ivi, p. 219.
[16] Ibidem. Su questo argomento cfr. la post-fazione di Antonio Livi, pp. 289-295; A. Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012; G. Covino (ed.), Senso comune, metafisica, teologia. Studi su "Vera e falsa teologia" di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[17] A. Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010, p. 67.